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Il vino bianco deve essere giovanissimo? Un falso mito da sfatare (e qualche consiglio)

Spesso siamo abituati a consumare bianchi solo dell'ultima annata. Eppure, in molti casi, può essere un errore che ci impedisce di bere le bottiglie al loro meglio. Seguici anche su Facebook

 

Bevo un bianco? E allora lo voglio fresco, freschissimo. E non solo (come sarebbe in genere abbastanza logico) quanto a temperatura di servizio. Ma freschissimo d’età. Meglio se bambino. Per quelli anche appena più stagionati invece, stop a prescindere. Respinti al mittente. Bocciati. Senza dar loro neanche la chance di un assaggio.

Sarà capitato chissà quante volte anche a voi, al ristorante o al wine bar, da spettatori al tavolo accanto o magari direttamente da protagonisti, se siete anche voi del partito del bianco supergiovane, sentir dire (o affermare) con risoluta fermezza che il vino non tinto ha da essere “last vintage”, dell’ultima annata prodotta, sennò non si prende. E anzi, peccato che per ovvie contingenze naturali non sia possibile avere già quello della prossima vendemmia…

A tutti i fautori di questa pur in parte rispettabile (e vedremo perché) posizione, suonerà allora particolarmente strana, per non dire scioccante, la notizia che è stato appena immesso sul mercato, con i debiti squilli di tromba e rulli di tamburo, quello che si annuncia come il vino bianco italiano forse più importante in assoluto, e sicuramente il più ambizioso, degli ultimi lustri: ed è un bianco del 1991. No, nessun refuso.

 

Avete letto bene. 1991 è la data di nascita del Terlano della Cantina omonima, battezzato a ragione “Rarity” e affinato in casa da questa celebre griffe atesina per gli oltre 25 anni necessari (uno in legno, il resto in vasca d’acciaio sui lieviti con finale in vetro una volta imbottigliato), secondo il loro enologo Rudi Kofler, perché potesse affrontare in piena forma e magnifico splendore evolutivo il vostro calice. Per inciso, il Rarity ambisce a sfidare i migliori bianchi del mondo sul loro terreno (sono quasi tutti, dai grandi Bourgogne ai grandi Riesling mitteleuropei, reputati da sempre vini di lungo tragitto), e anche sulla loro fascia di prezzo: e dunque costerà al pubblico circa 250 euro a bottiglia. La Cantina di Terlano del resto segue questa peratica per le annate del suo vino bandiera (blend di Pinot Bianco per oltre l’80%, e poi Chardonnay e sfumature di Sauvignon) e

Chi ha ragione allora? Tutto sbagliato nell’idea di bere bianco giovane? Non si può dire in assoluto: visto che di sicuro la regola e la media vogliono che i bianchi siano meno portati dei rossi a migliorare (attenzione a questa parola: è fondamentale! Ci sono vini capaci di sopravvivere un’eternità, ma chi se ne frega se poi lo fanno senza affinarsi, cioè senza guadagnare una virgola di piacere da offrire in più a chi li beve dopo averli attesi?) invecchiando. E in più, quando ci si incontra con un bianco, diciamo così, maggiorenne, diventano ancora più importanti, visto che si tratta di “merce” in genere più delicata e deperibile, il modo in cui sono stati conservati: con cura e nel posto giusto da professionisti o amatori consapevoli e rigorosi, o alla carlona, esposti a caldo e luce per anni su uno scaffale qualsiasi.

D’altro canto, però, i tifosi inesorabili dei bianchi teenager o da asilo infantile non sanno quanto e cosa si perdono… Perché per bere un ottimo bianco arricchito dall’evoluzione, e non sfibrato o peggio ossidato dal tempo trascorso, non c’è bisogno (anche se l’approdo è ovviamente consigliatissimo a chi può) arrampicarsi alle vette del 1991, o del Rarity non ancora uscito e che sarà, a suo tempo, addirittura un 1979!
Ci sono in giro ormai, e restando in Italia, un sacco di fantastici vini con cui esercitarsi, che, se serbati nel posto e nel modo giusto (dunque da un ristoratore, enotecario, sommelier, o wewine lover informato e capace), vi faranno godere senza intaccare drammaticamente i vostri budget-bevanda. Ecco (potrebbero essere ovviamente ben di più, dal Friuli alla Val d’Aosta per citare solo due regioni) alcuni esempi legati a tipologie di larga reperibilità

Verdicchio: il bianco indigeno delle Marche di mezzo, sia targato Jesi o Matelica (e due denominazioni legate al vitigno) ha ampiamente dimostrato la sua capacità di evoluzione. Mitici già da tempo vini come il Cambrugiano della cantina sociale Belisario; il raffinato e longevissimo Villa Bucci; il Podium e il Serra Fiorese di Garofoli; il Fogliano di Bisci; il Cantico della Figura di Andrea Felici; cui si sono via via aggiunti produttori di più fresca gloria, come Borgo Paglianetto, Cavalieri, e il campione di qualità/prezzo Collestefano.

Soave: uno dei bianchi nostrani più diffusamente ritenuti da beva immediata e senza pensieri. Assaggiate quelli di 4-5 anni d’età da terreni vulcanici (le migliori vigne di Soave sono così) e basati su Garganega (l’uva principe del luogo) di vero valore: dal Pressoni della Cantina del Castello ai vini targati Gini o Coffele, per approdare alla etichetta apripista di questa rivincita nel tempo delal denominazione: il Calvarino di Pieropan. Se non li conoscete già qualità e dolcezza dei prezzi vi stupiranno.

Trebbiano d’Abruzzo: una delle uve più umili e abusate (ai tempi della quantità esasperata, e ciao qualità) ha dato e dà alcuni tra i bianchi più longevi e illustri d’Italia. Celeberrime e folgoranti le “verticali” di Valentini e Pepe, con Trebbiano pazzeschi e incantevoli datati anni Novanta, Ottanta, e perfino Settanta… Ma un coro intonato si è via via aggiunto ai solisti: dai tesi Valle Reale, vini d’altura, al Fontecupa di Montori, a D’Alesio, Tiberio, Costantini (passando per il “cugino” da uve Pecorino Frontone di Cataldi Madonna), tutti da godere a lungo con fiducia.

Fiano e Greco: c’era una volta un Fiano celeberrimo e stravenduto che”doveva” uscire due mesi dopo la vendemmia per essere nei ristoranti delle grandi città prima di Natale… Assaggiate adesso i Fiano di 5-6-7 anni (e più, in vari casi)i di gente come Villa Raiano, Rocca del Principe, Marsella, o i Greco di Pietracupa o Ferrara, e capirete che eresia sarebbe averli sterminati senza pietà tutti appena nati…

Etna Bianco: l’ultimo arrivato in questa piccola “hall o fame” dei bianchi lunga vita. I vini del fuoco sono paradossalmente poi vini “freddi”, tesi, profumati, eleganti, grazie alla quota a cui nascono (anche oltre 900 metri), le uve autoctone riscoperte, il suolo, e la mano di artefici del calibro di Graci, Fessina, Tornatore, Terre Nere, con citazione doverosa per l’apripista (in ogni pezzo d’Italia da vino ce n’è stato uno) Benanti col suo celebre Pietramarina.

 

Fonte: Repubblica